Scritto da Aurora
Letto da Giorgio
Passeggio per le strade di Milano, senza alcuna fretta; tengo le mani nelle tasche, il viso nel bavero della giacca per ripararmi dal vento gelido. Nell’aria c’è odore di neve e di castagne arrostite; intorno a me solo macchine incolonnate nel traffico e un continuo, frettoloso andirivieni di gente dai negozi.
Certo che, per chi arranca dietro alle ferie, agli ultimi regali, ai pranzi e ai ritrovi famigliari, il periodo natalizio deve essere perlopiù un cocktail agrodolce di sensazioni…
Per me invece è diverso: mi bastano una tazza di caffè bollente, una sigaretta, il giusto sottofondo musicale e il bilancio di fine anno. Conti, grafici, calcoli, revisioni… quando tutto torna, allora sì / che mi sento felice come un bambino a Natale; e l’unico regalo di cui sento il bisogno, me lo faccio da solo.
Mi fermo davanti alla vetrina e sollevo lo sguardo verso l’insegna lucida. Osservo i manichini vestiti di tutto punto, dalle scarpe laccate, al gilet, ai guanti di pelle. Non credo esista luogo più accogliente di una sartoria… soprattutto se a studiarmi e misurarmi ci sei tu.
Una campanella sopra la porta annuncia il mio ingresso. Dentro fa caldo e nell’aria si diffonde un jazz leggero. Ti sento vociare dalla stanza sul retro. Sorrido. Ti immagino comparire col solito puntaspilli appeso al petto, il grembiule, le dita sottili sporche di gesso, i capelli un po’ scompigliati, la camicia infilata nei pantaloni e le brogue ai piedi.
Mi hai tolto il fiato anche la prima volta che ti ho vista qui, al posto di tuo padre. Non è stato facile nascondere quanto mi fosse diventato duro.
Mi tolgo il cappotto, sfilo i guanti, ancora assorto nei pensieri. Non ti ho ancora rivista e un principio di erezione inizia già a fare capolino dai boxer.
Quando sento sbattere la porta del magazzino, faccio appena in tempo a girarmi e ti trovo alle mie spalle; una mano piantata su un fianco e una tazzina di caffè fumante nell’altra. Sei come ti ricordavo: caschetto scuro e scompigliato, occhi maliziosi, seni piccoli e morbidi… intravedo la forma dei capezzoli sotto la camicia. Non indossi il reggiseno. Ogni cosa di te mi eccita, persino le caviglie nude.
Indico il caffè.
“Quello è per me?” (seducente)
Tu scoppi a ridere. Voce graffiata da fumatrice. Un brivido mi attraversa la schiena. Poi svuoti la tazzina con un sorso e mi dici di spogliarmi e salire sulla pedana al centro della stanza. Niente giri di parole, diretta e concreta. Non è proprio il mio stile, ma mi eccita. Tu mi ecciti. Sto al gioco.
“Agli ordini!” (ridacchiando)
In un attimo, rimango solo con i boxer addosso. Lascio che mi scruti dalla testa ai piedi – come se non l’avessi mai fatto prima – e che ti soffermi tra le mie gambe, dove la stoffa è pericolosamente tesa.
Non ho motivo di nascondermi stavolta, siamo solo io e te; e da come mi guardi, da come ti sento sfiorarmi la pelle quando poi ti avvicini con il metro in mano, dal ritmo del tuo respiro, capisco che mi vuoi tanto quanto ti voglio io.
Mi limito a restare immobile, a godermi la tensione della mia pelle nuda vicino alla tua. Ogni volta che ti abbassi, posso sbirciare nella tua scollatura e – in silenzio – cerco di immaginare che sapore abbiano i tuoi capezzoli.
Poi ti getti il metro sulle spalle e fai per allontanarti. Ti trattengo. Sto per esplodere, ho bisogno di stringerti, di leccarti, di scoparti.
“Manca molto?” (ansimando)
Tu ti avvicini; la mia erezione che ti preme contro la pancia. Ti avvicini ancora, mi respiri sulle labbra e mi rispondi che manca tutto il tempo di cui abbiamo bisogno.
Ti bacio. Ti bacio con foga, tu mi prendi il viso tra le mani e sento la tua lingua vorticarmi in bocca. Scendo sul tuo collo, faccio saltare i bottoni della camicia e mi getto sui tuoi capezzoli, stringendoti i seni con entrambe le mani. Poi scendo ancora. Ti afferro per le natiche e ti sollevo, mentre sento le tue labbra imprimersi a fuoco sulla mia pelle.
Ti spingo contro la parete. Cerchi di aggrapparti a qualcosa e butti a terra cappelli, guanti, cravatte. Ti abbasso i pantaloni, le mutandine, tuffo il naso su di te. L’odore della tua fica mi confonde i sensi. Ti mordo appena il monte di Venere. Sento che ti aggrappi ai miei capelli e soffochi un gemito.
Ho bisogno di scoparti.
Sfilo il metro che hai intorno al collo e ti ci stringo i polsi.
“Ti piace?” (sussurro)
Ti sporgi con foga verso di me per baciarmi. Lo prendo per un sì. Allora, con una mano sollevo i polsi legati sopra la tua testa – contro il muro – e con l’altra mi calo i boxer, quel tanto che basta per tirare fuori il cazzo. Sollevi la gamba e scivolo dentro di te. Finalmente. Sei così calda. Affondi i denti nella mia spalla per trattenere le urla di piacere. Stringi forte. Io, ad ogni colpo, penetro più a fondo. Tu stringi ancora più forte. E ti sento godere e sento che potrei venire da un momento all’altro; ma non voglio venire ancora. Voglio continuare a stringerti un seno tra le dita, a sentirti ansimare nel mio orecchio, il tuo sudore sul mio; i manichini ostacolano gli sguardi indiscreti e il jazz copre le spinte dei nostri corpi contro il muro.
Molli la presa sulla mia spalla solo per dirmi che stai venendo. Il tuo corpo si tende e trema. Faccio giusto in tempo ad uscire, che mi si annebbia la vista e una cascata di brividi mi scuote dalla testa ai piedi.
Riprendo fiato. Mi guardo intorno e mi accorgo che abbiamo appannato i vetri. Devi averlo notato anche tu, perché quando mi volto a guardarti, scoppiamo a ridere insieme.
Mezza svestita e più scompigliata del solito, sei ancora più bella.
Ero convinto che – come ogni anno – il solito regalo a me stesso sarebbe stato l’ennesimo completo su misura. Mi sbagliavo di grosso.